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Il Paesaggio, le ombre, il gioco, la memoria

Mi è accaduto nell’infanzia di vivere per qualche ora in una favola dei fratelli Grimm. Era una domenica di giugno, nel Sud Tirolo, trascorsa in gita con i miei genitori e i miei fratelli. Una giornata all’aria aperta, nella natura e nella noia. Proprio di fronte alla terrazza del ristorante dove avevamo fatto merenda con fragole e panna un bosco di pini saliva, non troppo fitto, e luminoso di molte sfumature diverse di verde. Mio fratello, più avventuroso di me e felice ogni volta ci fosse qualche impresa pericolosa da compiere, convinse mio padre a lasciarci andare in esplorazione, ma non oltre una radura ben visibile dalla terrazza. Naturalmente gli ordini furono trasgrediti: ci inoltrammo, io affannandomi e protestando, sino a dove il sole faticava a raggiungere il sottobosco.

W. Eugene Smith, The Walk To Paradise Garden, 1946
W. Eugene Smith, The Walk To Paradise Garden, 1946

Con la luce se ne andarono i rumori e i colori. Il paesaggio intorno a noi, che era di alberi fronzuti e profumati, rallegrato dalle cinciarelle, divenne una foresta silenziosa di ombre verticali. L’odore della resina da caldo e dolce si era fatto ai miei sensi metallico e freddo. Cercammo di tornare sui nostri passi, ma la mia guida pur spavalda non sapeva più dove andare. Ai miei occhi gli alberi divennero giganti con braccia minacciose e ogni roccia nascondeva un’insidia. Lo spazio che prima mi sembrava tutto compreso da uno sguardo si distese in un lunghissimo labirinto. Mi sentivo Pollicino senza briciole e sentivo pure i corvi gracchiare, credevo fossero passate le ore e sentivo già il gelo della notte. In verità ci eravamo persi in uno spazio non più grande di una piazza e i richiami degli adulti ci portarono subito in salvo. Il sole era ancora alto. Avevo imparato che il paesaggio, cioè quella porzione di realtà visibile che compone uno spazio intorno a noi, non ha sostanza oggettiva, e che le forme, i colori, i suoni, gli odori che lo rivestono vengono cambiati dall’esperienza. La linea dell’orizzonte è anche una linea del tempo che viene attivata dalla memoria.

Scrive Simon Shama:
… se la visione della natura può essere già nell’infanzia così densa di memorie, miti e significati, quanto più elaborata e complessa è la cornice attraverso cui i nostri occhi di adulti osservano il paesaggio! Siamo abituati a pensare natura e percezione umana appartenenti a due regni distinti; in realtà sono inscindibili. Prima di essere riposo dei sensi, il paesaggio è opera della mente. Un panorama è formato da stratificazioni della memoria almeno quanto da sedimentazioni di rocce.

Il paesaggio è anche l’oggetto di un’esperienza estetica, soggetto a un giudizio estetico ma soprattutto, nel bambino, è uno spazio delimitato in una più ampia geografia emozionale. Il pittore surrealista André Magritte dichiarò nel 1938, a proposito del suo dipinto La condizione umana realizzato cinque anni prima:

Così è come vediamo il mondo. Lo vediamo come fosse fuori di noi anche se è semplicemente una rappresentazione mentale di ciò che sperimentiamo all’interno.

René Magritte, La condition humaine 1933, National Gallery of Art, Washington D.C.
René Magritte, La condition humaine 1933, National Gallery of Art, Washington D.C.

Il paesaggio dunque è disegnato dall’atto conoscitivo, dalla cultura, dai miti, dalle convenzioni e dagli stati d’animo. È ancora Shama a dire che “gli occhi sono raramente liberi dai suggerimenti della memoria”. E se la memoria dei bambini è popolata anche dalle ombre, con la stessa forza è illuminata dalle luci dell’immaginazione.

Torniamo per un attimo ai bambini sperduti: nel 1845 Adalbert Stifter scrive il suo racconto più bello, Cristallo di rocca, ispirato da un viaggio ai luoghi dell’infanzia e dalle passeggiate in montagna con il geografo, geologo e scalatore Friedrich Simony. Sarà lui a raccontargli di una meravigliosa grotta di ghiaccio “simile al palazzo di un re delle Alpi, costruito di smeraldi, zaffiri e cristallo di rocca”. Stifter che durante una di quelle passeggiate ha incontrato due bambini fradici di pioggia che tornano dalla montagna dice:

Mi sono immaginato i bambini di ieri sotto questa azzurra volta di ghiaccio; che contrasto farebbero quelle fresche palpitanti vite umane in questa splendida, paurosa, gelida cornice.

Gletscherphaenomene è un opera che fa parte della raccolta di schizzi, vedute e stampe  di Friedrich Simony (1813-1896), ora riunite in una collezione conservata all’Università di Vienna  presso la Fachbereichsbibliothek Geographie und Regionalforschung.
Gletscherphaenomene è un opera che fa parte della raccolta di schizzi, vedute e stampe
di Friedrich Simony (1813-1896), ora riunite in una collezione conservata all’Università di Vienna
presso la Fachbereichsbibliothek Geographie und Regionalforschung.

La storia di Cristallo di rocca è semplice e neppure troppo originale: un fratello, più grande, e una sorella, più piccola, tornano in un giorno d’inverno da una visita alla nonna. È una strada che conoscono, tre ore di cammino da un piccolo paese a un altro attraversando un colle ai piedi di una vetta, dove scintillano neve e ghiacciai eterni. Il paesaggio è protagonista assoluto e la montagna in particolare. Ecco come la introduce Stifter:

Poiché è la cosa più notevole che ci sia tutt’intorno, la montagna è oggetto di osservazione da parte degli abitanti, ed è diventata il centro di molti racconti. Non c’è uomo, giovane o vecchio, del paese che non sappia raccontare qualcosa delle sue cime e delle sue guglie, dei suoi crepacci e delle sue grotte di ghiaccio, delle sue acque e delle sue lavine, che ha visto egli stesso o di cui ha sentito raccontare da altri.

Durante il cammino di Corrado e Sanna, così si chiamano i due fratellini, il tempo cambia all’improvviso: il sole si nasconde, il terreno si ghiaccia, comincia a cadere la neve. Ciò che era familiare, la forma speciale di un albero, il piegarsi del sentiero, il disegno dell’orizzonte osservato da un punto consueto, diventa incerto, confuso se non ancora ostile. Gli occhi hanno perso la memoria:

…intorno non c’era che il bianco abbagliante, il bianco e null’altro, e anche questo tracciava intorno a loro un cerchio che si faceva sempre più piccolo e si perdeva poi in una nebbia pallida e striata che inghiottiva e avvolgeva ogni cosa, e che infine altro non era che la neve che continuava a cadere instancabile.

Caspar David Friedrich, Das Eismeer, 1823/24, Hamburger Kunsthalle.
Caspar David Friedrich, Das Eismeer, 1823/24, Hamburger Kunsthalle.

E anche le orecchie non hanno i soliti punti riferimento, né un abbaiare di cani, né il suono della campana o quello del mulino. Il paesaggio ha abolito ogni implicito segnale di riconoscimento. La neve che sporge dalle rocce come un tetto fantastico sembra allungare nel vuoto le sue zampe bianche e i macigni che spuntano dal ghiaccio assomigliano a una muraglia diroccata. Se la memoria del conosciuto è abolita si attiva la fantasia che ricostruisce un panorama di pura invenzione. E sembra solo fantasia la grotta che infine li accoglie, è la vigilia di Natale, come una capanna miracolosa:

Era tutto asciutto, e sotto i piedi avevano ghiaccio liscio. Ma nella grotta tutto era azzurro, azzurro come nulla al mondo, un azzurro tanto più profondo e più bello del firmamento, simile a vetro di color celeste, attraverso cui penetri una chiara luce.

Arriva la notte che si accende di luci boreali ma acceca lo spazio intorno ai due bambini e lo infittisce di ombre misteriose. Poi giunge il giorno che scopre il ghiacciaio nella sua vera grandezza, come un mare battuto da onde solidificate. Il sole come un metro ben tarato ridà la giusta misura a ogni cosa. Una misura tremenda.

Un’illustrazione di Ludwig Richter per la prima edizione (1853) della raccolta di novelle  Pietre colorate di Adalbert Stifter, dove compariva anche il racconto Cristallo di rocca.
Un’illustrazione di Ludwig Richter per la prima edizione (1853) della raccolta di novelle
Pietre colorate di Adalbert Stifter, dove compariva anche il racconto Cristallo di rocca.

Ma è arrivato il giorno di Natale e con esso arrivano i soccorsi, la salvezza, il tempo quotidiano, il lieto fine. Nelle righe conclusive Stifter ci ricorda un’ultima volta come il paesaggio esiste solo grazie alla memoria e solo in virtù di essa ci parla:

… i bambini non dimenticheranno mai la montagna, e si faranno ancora più seri nel contemplarla, quando sono in giardino e come in passato il sole splende sereno, odora il tiglio, ronzano le api, e la montagna li guarda dall’alto bella e azzurra come la dolce volta del cielo.

Il paesaggio per il bambino non è che la quinta mobile di una rappresentazione mai uguale: una sedia diventa una carrozza, una fila di pioppi è un reggimento di cavalieri schierati in buon ordine, e anche dove non vi siano oggetti da trasformare, l’immaginazione s’incarica di distribuire al vuoto e al silenzio suoni e sembianze.

Più o meno quarant’anni dopo la pubblicazione di Cristallo di rocca, venne in voga a Berlino uno speciale dispositivo stereoscopico, il Kaiserpanorama. Con il Kaiserpanorama molte persone potevano godere contemporaneamente della visione delle stesse fotografie. Una ventina di spettatori sedevano in cerchio intorno a un grande cilindro munito di visori. All’interno dello strumento le immagini ruotavano grazie a un meccanismo che consentiva a tutti, a turno, di guardare gli stessi soggetti proiettati in formato tridimensionale.

Il Keiserpanorama
Il Keiserpanorama

Walter Benjamin ce ne parla nel suo Infanzia berlinese intorno al 1900. La moda del Keiserpanorama volgeva già al termine e spesso il locale che lo accoglieva era semideserto:

Le arti che qui sopravvivevano sono morte con il ventesimo secolo. Quando ebbe inizio, avevano nei bambini il loro ultimo pubblico. Le terre lontane non sempre erano loro estranee. Lo struggimento che provocavano poteva essere un richiamo verso casa e non verso l’ignoto. Così, davanti al trasparente [la fotografia stereoscopica] della cittadina di Aix, un pomeriggio cercai di convincermi di avere un tempo giocato sul lastrico, scortato dai vecchi platani, del Cours Mirabeau.
(…) Entravo, e là dentro, nei fiordi e sotto le palme da cocco, ritrovavo la stessa luce che di sera illuminava il mio scrittoio mentre facevo i compiti. A meno che qualche guasto dell’illuminazione non facesse all’improvviso ritrarre il colore del paesaggio che allora giaceva riservato sotto un cielo di cenere; e sembrava che avrei quasi potuto percepire il vento e le campane, se solo avessi prestato maggiore attenzione.

Il diavolo prende possesso dell’ombra di Peter Schlemihl. È un incisione di Carl Mayer (1802-1872), tratta da un disegno di Johann Baptist Zweckwer, che illustra un’edizione del libro di Adalbert von Chamisso pubblicata intorno agli anni 50 dell’Ottocento.
Il diavolo prende possesso dell’ombra di Peter Schlemihl. È un incisione di Carl Mayer (1802-1872), tratta da un disegno di Johann Baptist Zweckwer, che illustra un’edizione del libro di Adalbert von Chamisso pubblicata intorno agli anni 50 dell’Ottocento.

Nel gioco ogni bambino costruisce un suo Keiserpanorama sovrapponendo senza risparmio allo spazio che lo circonda, in un prato come in una stanza, i racconti che ben conosce o le storie che sempre nuove gli affollano il tempo. Queste sovrapposizioni sono come ombre che vivono quanto basta per svolgere la loro parte: sono il controcanto della realtà e non sono di questa meno concrete. L’ombra è tutt’altro che superflua: basta rileggersi la Storia straordinaria di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso. Il protagonista baratta la sua ombra con il demonio, che lo ricompensa con una borsa dalla quale zampillano inesauribili le monete d’oro. Ma senz’ombra Peter scoprirà di essere reietto e infelice e troverà pace solo dopo aver gettato la borsa maliziosa e aver donato tutte le sue ricchezze.

E proprio Peter Schlemihl è evocato, nella presentazione del suo lavoro, dall’artista contemporaneo Mario Martinelli che nelle sue opere “lavora all’emancipazione e alla materializzazione dell’ombra”. Martinelli gira per il mondo con uno spot luminoso di cui si serve per suscitare magicamente l’ombra dei passanti, proiettandole su un telo, dove rimarranno anche quando le persone si saranno allontanate. Quando per lo stesso procedimento il telo è sostituito da una fitta trama metallica l’ombra è presa nella rete e viene ritagliata conservando la forma di un corpo che non c’è più ma che continua a raccontare la sua storia. Ha scritto Pierre Restany che “l’ombra-in-rete è una figura fatta pressoché di niente, ma che impone la sua presenza attraverso l’assenza cioè quell’altro niente che la abita”.

Quelle di Martinelli sono ombre ritagliate dal loro paesaggio, ma ci sono anche ombre che al paesaggio si sovrappongono animandolo e conquistandolo con tocco leggero. Sono quelle di un nuovo gioco per i bambini, nato proprio a partire dal paesaggio e dalle ombre. Un gioco che permette di reinventare il gran teatro del mondo, sottomettendolo alle leggi della propria fantasia. Si chiama Mario Ma ed è prodotto da Italiantoy. Leggiamo come si presenta:

Mario Ma è una collezione di ombre buffe, servizievoli e pronte ad adattarsi a ogni paesaggio, a ogni matita, a ogni fantasia. Si attaccano e si staccano ai vetri delle finestre, delle macchine, delle vetrine per ricomporre il panorama, bighellonando su e giù guidati dall’immaginazione dei bambini. Quando il sole le proietta sul pavimento si possono anche disegnare: come una nuvola, cambieranno aspetto a ogni ora del giorno e a ogni sguardo.

È un gioco per esercitarsi a interpretare il mondo, a cambiarlo per farlo diventare racconto, a leggere le trasformazioni che la luce impone alle cose, sbirciare le ombre e vedere che non scappino da sole, imparare che un paesaggio non è una cartolina ma un libro di storia e di avventure.

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