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IL PANE, LE ROSE, L’INSALATA E IL BANCHETTO DI PETER PAN I bambini imparano a mangiare dai cartoni animati e imparano dall’arte che non tutto quello che si mangia finisce sulla tavola

Cosa impara un bambino sul cibo quando a parlargliene è Walt Disney? In Biancaneve e i sette nani (1937) riceve innanzitutto una lezione di genere: una principessa destinata al trono, o almeno a un principe azzurro, e dunque cresciuta con adeguata servitù anche in cucina, come donna tra i fornelli se la cava meglio di sette rudi minatori che hanno fatto da sé tutta la vita. E prima di servir loro la sua famosa zuppa ha pure il tempo di obbligarli a lavarsi le mani, come ogni mamma fa con il suo piccino. La seconda lezione è invece un invito all’organic food: le mele troppo belle a vedersi non sono certo buone a mangiarsi.

Il bello e il buono. Biancaneve e i sette nani, Walt Disney 1937
Il bello e il buono. Biancaneve e i sette nani, Walt Disney 1937

Per quel che riguarda il Pinocchio cinematografico (1940), è interessante quello che non c’è. Non c’è la patetica scena della fame nera del burattino che senza pietà per quella altrettanto urgente di Geppetto si mangia le tre pere del falegname e poi, dopo averli disprezzati, si mastica anche le bucce e i torsoli. Il cibo in Collodi è felicità, potere, amore o ricompensa: la fatina in veste di buona donnina promette a Pinocchio, se l’aiuterà a portare due brocche d’acqua, un pezzo di pane, poi un bel piatto di cavolfiore condito coll’olio e coll’aceto e infine un bel confetto ripieno di rosolio, in un crescendo affettivo e goloso. A convincere Pinocchio è naturalmente la dolcezza superflua.

Una illustrazione di Attilio Mussino per il Pinocchio di Carlo Collodi, nell’ edizione Bemporad del 1911.
Una illustrazione di Attilio Mussino per il Pinocchio di Carlo Collodi, nell’ edizione Bemporad del 1911.

In Dumbo (1941) c’è lo zampino di qualche cattivo maestro. Non di cibo si tratta ma di vino. La sbronza involontaria dell’elefantino e del suo amico topolino, non solo spalanca le porte a visioni psichedeliche certo inconsuete ai tempi di Noè, ma rivela al minuscolo pachiderma la sua qualità di animale volante. La sostanza psicotropa allarga la coscienza e fortifica la fiducia in se stessi. La censura di Mr. Will Hayes, che separava sullo schermo i letti delle coppie più legittime, qui tacque per difetto di fantasia. E a proposito di Fantasia (1940), gli enologi della Disney contando sulla maturità dei più piccoli o sull’immaturità dei più grandi – e a ogni buon conto certi della maturazione dei grappoli migliori – avevano raccontato dei dell’Olimpo goderecci, sileni e fauni su di giri.

 Ma acceleriamo la nostra corsa, sfogliamo in fretta il menù,  tralasciamo pure gli spinaci di Popeye, energy drink ante-litteram; le carote di Bugs Bunny, dieta monomaniacale; le toffolette di Charlie Brown, sapore sconosciuto ai lettori italiani; le briciole di Pollicino, fame e disgrazia in un colpo solo; il marzapane con cui è costruita la casetta che prenderà in trappola Hansel e Gretel, deterrente per i bambini troppo golosi; la semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto, nonché il cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa della Volpe nel libro di Collodi, per imparare che ci sono piatti poetici come fiabe; il panierino di Cappuccetto Rosso, cioè il pranzo per la nonna che se ne va per il bosco al braccio di quella che sarà la colazione del Lupo.

 E poi, e poi. E poi è il 1951 e Alice in the Wonderland ci regala la storia del Tricheco e del Carpentiere che mettono in tavola le ostriche curiose: mai accettare un invito a pranzo se si ha il dubbio di poter essere il pranzo. Ma nel Paese delle Meraviglie il cibo risponde agli stessi criteri logici e onirici che reggono il racconto: quindi ci sono cibi che fanno diventare molto grandi o molto piccoli e che si premurano di ricordarci di che pasta siano fatti – eat me, drink me.

Alice nel paese delle meraviglie, Walt Disney 1951. Il cibo a chilometro zero - il tricheco invita il suo pranzo a un’allegra passeggiata
Alice nel paese delle meraviglie, Walt Disney 1951. Il cibo a chilometro zero: il tricheco invita il suo pranzo a un’allegra passeggiata

Il cibo è magia ma anche amore: il Vagabondo trova che nulla sia meglio di un piatto di spaghetti con le polpette per sedurre Lilli.

Nel 1959 è la volta della Bella addormentata nel bosco: spiega ai più piccoli come l’arte pasticcera sia un ottimo banco di prova per delle fate pasticcione. È molto divertente e francamente liberatorio vedere queste tre inutili gonne volanti, che per un pezzo si sono limitate a fare la parte delle madrine brontolone, tornare finalmente alla magia per preparare una magnifica torta.

La fata pasticcera ha qualche problema con l’architettura. La Bella addormentat nel bosco, Walt Disney 1959
La fata pasticcera ha qualche problema con l’architettura. La Bella addormentata nel bosco, Walt Disney 1959

 Nel Libro delle giungla (1967) poi, l’orso Baloo ci insegna cantando che bastano poche briciole, lo stretto indispensabile per dimenticare qualsiasi malanno. È la premessa a una terapia alimentare che unisce alla moderazione uno straordinario eclettismo: miele, noci di cocco, banane, meloni, fichi d’india. Non fosse per le formiche, che danno quel pizzicorino così piacevole, si direbbe una scelta vegana.

 Ma nel 1970, Gli Aristogatti ribadiscono che la democrazia americana è liberale anche nel gusto: così protagonista è la haute cuisine di un maggiordomo, Edgar: la sua Crème de la Crème, golosissima ma piena di sonnifero suggerisce come l’apparenza inganni e non sia la confezione a garantire il prodotto. Così Romeo gatto burino, ma generoso e integerrimo, sarà un piatto meno sofisticato ma anche meno indigesto per gli aristogatti allo sbando.

 Il cibo spiegato ai bambini attraverso le capacità trasformative dell’immaginario ci presenta tanto una strega del mare, Ursula, che si nutre di piccole creature che sono esseri umani imprigionati da un incantesimo in quella diversa forma (La Sirenetta, 1989), quanto animali antropomorfi, francamente un po’ schizzati, che cercano di convertire a una dieta d’insetti un leoncino, Simba, in preda a stress post-traumatico per la recente morte del padre (Il Re Leone, 1994).

Ppumba è un facocero che cerca di cambiare la dieta proteica di Simba, il leoncino orfano, in Il Re Leone, Walt Disney 1994.
Pumba è un facocero che cerca di cambiare la dieta proteica di Simba, il leoncino orfano, in Il Re Leone, Walt Disney 1994.

Nel film Hook (1991) di Steven Spielberg, l’avvocato americano Peter Banning (Robin Williams) finisce nell’isola che non c’è, dove scoprirà di essere in realtà Peter Pan: insomma il ritorno di un Ulisse inconsapevole alla sua favolosa Itaca. Ma quel che ci preme qui è la prima cena di Peter con i bambini sperduti: arrivano in tavola pentole fumanti ma vuote e vassoi traballanti sotto il peso di leccornie altrettanto invisibili. Tutti mangiano con gioia, avidamente. Ma l’avvocato, no. Solo quando riesce a usare veramente l’immaginazione la tavola s’imbandisce d’ogni ben di dio. E questo succede dopo aver mostrato la sua inventiva e la sua perizia linguistica in una sfida di insulti con il capo dei ragazzi. L’ultimo sberleffo ha non solo una forma grammaticale ma anche colori, consistenza materiale, forma. Si può lanciare con un cucchiaio. La fantasia plasma la materia sino a renderla commestibile. La metafora nutrire la mente diventa la mente nutriente. Il banchetto si trasformerà in una battaglia a colpi di torte arcobaleno e creme ipercromatiche, intrecciando ancora più strettamente gioco e cibo, creatività e sazietà: ciò che entra in bocca e ciò che dalla bocca esce, vale a dire parole e idee che la testa inventa. Detto altrimenti vogliamo tutti, i bambini più degli altri il pane e le rose: uno slogan delle operaie tessili in sciopero nel 1912 a Lawrence, negli Stati Uniti, che sintetizza mirabilmente la gioia di un piatto pieno e una mente affamata.

Robin Williams, immemore Peter Pan divenuto manager, riassapora il potere della fantasia in Hook-Capitan Uncino di Steven Spielberg, 1991.
Robin Williams, immemore Peter Pan divenuto manager, riassapora il potere della fantasia in Hook-Capitan Uncino di Steven Spielberg, 1991.

Bruno Munari i fiori della creatività li ha cercati ovunque e in particolare ha trovato Rose nell’insalata. Magari non le stesse rose di Lawrence, ma buone come il pane: cioè semplici, fragranti e confortanti. Usando il gambo tagliato dell’insalata come un timbro, Bernardino scopre che ci sono rose nell’insalata. Il cibo diventa segno, disegno. Un ortaggio inchiostrato diventa un pennello: se nell’insalata ci sono le rose nei cavoli ci sono gli alberi. Se invece di un cavolo adoperiamo un mezzo cavoletto di Bruxelles, otterremo dei minuscoli alberelli e quelli grandi non saranno che questi più piccoli visti con la lente d’ingrandimento.

Dal libro di Bruno Munari  Rose nell’insalata, pubblicato attualmente dall’editore Corraini. Ma in prima edizione presso Einaudi nel 1974
Dal libro di Bruno Munari Rose nell’insalata, pubblicato attualmente dall’editore Corraini. Ma in prima edizione presso Einaudi nel 1974

 Se invece di una lente d’ingrandimento prendiamo un microscopio e osserviamo una torta al cioccolato, vedremo dei blocchi di marmo bianco affondati in una marna brunastra, e la coda di un gamberetto ci apparirà come un ventaglio di piume belle-epoque, il seme di un kiwi un punzone metallico, un pomodoro secco la caverna incandescente di un vulcano, lo zucchero di canna una montagnola di mattoni abbandonati, il ravanello una borsa in pelle di Vuitton. Sono gli effetti della fotografia a forte ingrandimento del fotografo americano Caren Alpert.

Caren Alpert, seme di kiwi ingrandito 320 volte
Caren Alpert, seme di kiwi ingrandito 320 volte
Caren Alpert, pomodoro essicato al sole ingrandito  250 volte
Caren Alpert, pomodoro essicato al sole ingrandito 250 volte
Caren Alpert, torta al cioccolato ingrandita 320 volte
Caren Alpert, torta al cioccolato ingrandita 320 volte

Ognuno dei suoi scatti è il paesaggio di un’avventura da intraprendere, l’ambiente saporito per un film ancora da pensare. Ma per finire e ricordare da dove abbiamo iniziato, un frammento da un altro film di Walt Disney, Ratatouille (2007): il critico gastronomico Anton Ego, superbo, sprezzante, pericoloso e livoroso, si sdilinquisce assaggiando un piatto umile,  paesano, cucinato da un ratto con il talento del grande chef. Il primo boccone di ratatouille lo riporta alla sua infanzia, a un piatto consolatorio, affettuoso, cucinato dalla mamma; un sapore che gli ha asciugato le lacrime dopo una caduta dalla bicicletta. Ecco spiegato Marcel Proust ai bambini.  Con il cibo si dà un morso al tempo, s’impara l’arte e invece di metterla da parte la si mangia.

Post Scriptum

 In Z la formica prodotto dalla Dreamworks nel 1998, una formichina nevrotica che parla con la voce nevrotica di Woody Allen si chiede perché solo lei trovi repellente bere succhiando il  posteriore di un animale (l’afide).  Se entrasse al numero 159 di Hoxton Street a Londra avrebbe di sicuro modo di esprimere analoghe perplessità: in questo strano negozio, Hoxton Street Monster Supplies, dall’aspetto serenamente dickensiano, aperto a cura del Ministry of Stories, si vendono edibles, cose da mangiare, davvero speciali. Solo qui si possono comprare, in eleganti scatole nere, caramelle che promettono di suscitare inquietudine e disagio: sull’etichetta è scritto A Vague Sense Of Unease. Per i più audaci ci sono le chicche Mortal Terror e Night Terrors: facile immaginare quali piaceri promettano. Le gommose Cubed Earwax sono di puro cerume raccolto da umani alimentati esclusivamente con Tinned Fear (paure in scatola). L’esperienza più radicale è succhiare voluttuosamente una Escalating Panic, soprattutto se bloccati nella folla. Se poi siete inspiegabilmente felici, allegri e gioviali, basta che mettiate in bocca una Bah!Unbugs bicolore e subito sarete travolti da un meraviglioso umore malinconico e autocommiserativo. E le Banshee Balls, deliziose biglie porporine, daranno sollievo alla gola messa a dura prova da urli, gemiti e stridor di denti.

 A Hoxton Street i dolciumi diventano emozioni narrative. Ma nelle bellissime confezioni si trovano anche vere storie e lunghe poesie, da mangiarsi con gli occhi naturalmente.

A Londra al numero 159 di Hoxton Street c’è una piccola bottega degli orrori alimentari, tutti invariabilmente deliziosi.
A Londra al numero 159 di Hoxton Street c’è una piccola bottega degli orrori alimentari, tutti invariabilmente deliziosi.
Come privarsi di una buona cucchiata di densissimo moccio, prodotto da umani piagnucolosi tirati sù a latte e miseria.
Come privarsi di una buona cucchiata di densissimo moccio, prodotto da umani piagnucolosi tirati sù a latte e miseria?
Per i palati più avvertiti nulla è meglio di un barattolo di mal di stomaco, soprattutto quando si è oppressi  da benessere, fiducia o, dio ne scampi, contentezza.
Per i palati più avvertiti nulla è meglio di un barattolo di mal di stomaco, soprattutto quando si è oppressi da benessere, fiducia o, dio ne scampi, contentezza.
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