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UNA MAESTRA, UN MAESTRO, QUALCHE SCRITTORE, UNA ZANZARA E MOLTO GHIACCIO Educazione scientifica tra i banchi di scuola e tra le righe

Non è tra i banchi di scuola che la scienza mi ha conquistato la prima volta, ma in edicola. A tredici anni per me scienza faceva rima con futuro e nel 1969 il futuro era sulla luna. In edicola trovai i fascicoli speciali della rivista Epoca dedicati alla più recente e sorprendente impresa spaziale della N.A.S.A. Li conservavo in una scatola che infilavo sotto il letto. Gli apparati fotografici e i diagrammi (che tanto dovevano a Otto Neurath) erano splendidi. L’impresa scientifica era un’avventura di eroi con i capelli a spazzola, gonne a corolla, grandi bicchieri di latte e macchine meravigliose.

La rivista settimanale Epoca pubblicò l’8 giugno 1969 (a. XX, n. 976) un numero speciale intitolato Sulla Luna con venti pagine a colori delle fotografie scattate dagli astronauti dell’Apollo 10. Dal 13 luglio al 10 agosto dedicò cinque inserti all’impresa spaziale con una dettagliata cronaca, dalla preparazione all’allunaggio, sino al ritorno della navicella sulla terra

Fu quello il vero, e temporaneo addio a Jules Verne e alla sua romanzesca pedagogia scientifica. La sua luna di cartapesta e i suoi razzi sparati con un lunghissimo cannone tornavano a essere puro racconto su cui fantasticare, come aveva fatto George Méliès, stregone del cinema, nei suoi film muti ispirati allo scrittore francese, Le Voyage dans la lune (1902) e Vingt mille lieues sous les mers (1907).
Verne ha sceneggiato con abilità insuperabile il secolo delle scoperte e della tecnica, scegliendo come strumenti espressivi le ipotesi più fiammeggianti di geologi, ingegneri, fisici, biologi, naturalisti ecc. Con lui la scienza è l’avventura che ogni bambino vorrebbe che fosse, una prassi ostacolata raramente dalla pedantesca precisione della teoria. La letteratura è più accogliente dell’ora di Scienze. Con Emilio Salgari s’impara che geografia, storia ed etnografia, obbligano a un solo viaggio infinitamente ripetuto fino alla più vicina biblioteca civica per rivelare i loro lussureggianti segreti. C’è un suo libro meno noto ma di tutti il più sorprendente, Le meraviglie del duemila, in cui un viaggio nel tempo di cento anni dal 1903 al 2003 conduce i protagonisti in un mondo e una scienza a venire, spiegata ancor prima del suo ipotetico realizzarsi: s’intravedono in forme un poco surreali i prototipi della radio, della televisione, dell’inesauribile energia radioattiva, dell’automazione e della robotica, dei grattacieli e dei messaggi verso lo spazio profondo, l’alta velocità, le metropolitane e gli aerei. Naturalmente i due protagonisti non possono che uscir pazzi da questa lezione di fanta-scienza impartita loro da un futuro indifferente alle dolcezze della moderna pedagogia. Ma i bambini invece usciranno senz’altro più savi da quest’avvincente lettura.

A sinistra la copertina dell’edizione originale del romanzo di Emilio Salgari Le meraviglie del duemila, Bemporad, Firenze 1907. Illustrazione di Carlo Chiostri. A destra un bozzetto di George Méliès (1861-1938) per il suo film Le Voyage dans la lune (1902)
Due illustrazioni di Émile-Antoine Bayard (1937-1891) per il romanzo di Jules Verne, Autour de la lune (1870)

Che la scienza possa diventare in qualche modo altro da sé per suscitare l’interesse e conservare l’attenzione dei ragazzi è una fortuna per la letteratura. Così continuando a viaggiare tra le stelle con la fantasia (di un buon scrittore) può accadere d’incontrare un protagonista dal nome improbabile, anzi impronunciabile, Qfwfq.
Qfwfq è l’io narrante che nelle Cosmicomiche di Italo Calvino ci porta a spasso tra gli eoni, testimone smargiasso della formazione dell’universo, dell’estinzione dei dinosauri – dinosauro egli stesso per una cinquantina di milioni d’anni – dell’accensione delle galassie e dell’allontanamento della luna dalla terra. Le cosmogonie calviniane, contraddittorie e sinuose, trovano in Qfwfq un postillatore facondo e surreale. Qfwfq non ha forma, non ha età, c’è sempre stato. E la sa lunga. Una notte che scrutava il cielo al telescopio, aveva notato che da una galassia lontana cento milioni d’anni-luce spuntava un cartello su cui era scritto, TI HO VISTO. Immediato il calcolo: era stato spiato duecento milioni di anni prima. Ofwfq, senza dare un’occhiata alla sua agenda, dove evidentemente tiene nota di tutto ciò che fa dal big bang in poi, o forse da prima ancora, sa con certezza che proprio quel giorno gli era successo qualcosa che voleva nascondere: si era messo la maglia di lana. Inciampi quotidiani sul bordo della creazione.

Un fotogramma dal cortometraggio d’animazione di Isabelle Duverger, Distance to the Moon, ispirato al primo racconto delle Cosmicomiche (1965) di Italo Calvino. Qfwfq ricorda bene quando per toccare la luna bastava tirar su una scala e allungare le braccia. Che inutile impresa sarebbe stata allora quella dell’Apollo 10.

Se la proposizione iniziale del capitolo La forma dello spazio dice che “le equazioni del campo gravitazionale che mettono in relazione la curvatura dello spazio con la distribuzione della materia stanno già entrando a far parte del senso comune”, il commento inaugurale di Qfwfq abbassa subito il tono, umanizza e invita all’ascolto: “cadere nel vuoto come cadevo io, nessuno di voi sa cosa vuol dire”. Noi lettori si potrebbe al massimo cadere da un aeroplano o un grattacielo, “ed ecco che la terra è subito lì”. Ma Qfwfq – e qui immaginiamo il suo sguardo condiscendente – intende un cadere indefinito, per un tempo indefinito, così da non avere nemmeno la prova che si stia cadendo. Quale immagine più plastica dello spazio profondo, di questo volo inconsapevole, perduto in una o più delle infinite dimensioni del cosmo.
È ora di tornare con i piedi per terra, anzi in classe. Dove non è difficile incontrare tra le maestre e i maestri, che si muovono con calma sorridente tra i banchi di scuola, dei narratori capaci di cogliere dall’albero della conoscenza non solo una mela, ma anche uva, arance, nuvole, gnomi e animali sapienti.

Nel 1901 l’Unione degli insegnanti svedesi propose di scrivere un libro di lettura per tutti gli scolari del paese, un libro di geografia e storia, dove fossero raccontati paesaggio e costumi, flora e fauna, attività economiche, tradizioni e leggende. Nell’appello era implicito un intento riformatore del sistema pedagogico nazionale, suscitato dalle spinte al cambiamento del sempre più influente pensiero socialista. L’ambizione era quella di sostituire alla pedanteria didattica dei testi tradizionali la forza magnetica della fantasia. La dottrina avrebbe dovuto scendere a patti con la poesia. L’organizzazione professionale non solo era progressista, ma era presieduta da un insegnante divenuto ministro della pubblica istruzione durante il primo governo liberale della Svezia. Era anche editore, così da aggiungere prestigio e risonanza all’incarico.
La scelta per questo difficile compito cadde su una donna quarantatreenne, che dal 1885 al 1995 era stata maestra in una scuola per le bambine a Landskrona, città meridionale affacciata sull’ Öresund, il braccio di mare che separa la Svezia dalla Danimarca: una regione nebbiosa che Strindberg, quando gli capitò di passarvi del tempo, visse come un odioso esilio, ma che a lei piaceva moltissimo. Era un’insegnante molto apprezzata e le sue lezioni comprendevano storia della chiesa, storia della Svezia, scienze naturali e aritmetica. Ma certo non erano bastate le sue qualità di educatrice a convincere l’Unione, quanto piuttosto la sua ormai solida fama di scrittrice. Aveva esordito nel 1890 pubblicando alcuni capitoli di un libro a cui stava lavorando su una rivista femminista di Stoccolma, Idun. Il settimanale aveva indetto un concorso dedicato alle storie di fantasmi e lei aveva vinto. Il libro sarebbe uscito l’anno dopo con il titolo La saga di Gösta Berling. L’autrice era il futuro premio Nobel, Selma Lagerlöf (1858-1940).

Selma Lagerlöf ritratta da Carl Larsson nel 1902. È l’anno in cui inizia il suo lungo periodo di documentazione e viaggi per raccogliere il materiale necessario alla stesura del sussidiario più bizzarro che mai sia stato creato per uno scolaro.

Ma fu proprio quel libro su commissione a diventare il suo capolavoro. Ci lavorò cinque anni e uscì in due volumi successivi, nel 1906 e 1907, poi riuniti solitamente sotto il titolo di Viaggio meraviglioso di Nils Holgersson. È la storia di Nils Holgersson, un monello sfaccendato e riottoso (Pinocchio) che a causa del suo pessimo carattere viene rimpicciolito (Alice) da uno gnomo e trascinato suo malgrado, a cavallo di un’oca domestica, in una migrazione che lo conduce attraverso tutta la Svezia. Effetto collaterale, indispensabile all’intreccio, del sortilegio comminato al ragazzino dal coboldo maltrattato, è che Nils possa capire la lingua degli animali ed essere da loro compreso.
Selma Lagerlöf si preparò all’impresa documentandosi minuziosamente su topografia, storia patria, botanica e zoologia, usi locali e geologia, facendosi etnologa ed entomologa, folclorista e biologa. L’enorme massa delle nozioni fu animata e drammatizzata in questo romanzo, epico nell’andamento e picaresco nella struttura, infittito di personaggi e situazioni, incontri e avvenimenti minuti. Il sapere, la ‘cosità’ del mondo, si riposava dalle fatiche della dottrina alla fresca ombra del bosco narrativo. D’altronde la maestra di Landkrona aveva messo in esergo al volume, dopo i versi dello Svenska Psalmboken, quelli un poco gozzaniani del poeta Carl Snoilsky, che erano già una dichiarazione di poetica:

Ma che ne pensi tu, in tutta fede,
che dell’età del vapor sei l’erede,
col volto pallido da troppa cultura?
Hai per studiare, nella frenesia,
chiuso la porta alla fantasia,
che sempre gioca e trasfigura

No: ecco furtiva ancora si china
sui banchi di scuola ogni mattina
di voi bambini la conclusione.
E con la magica sua lente in mano
colori e vita troverà ognuno
nel vuoto arido della lezione.

Tu fata buona, ai bimbi tanto cara,
sul libro ai margini dipingi ancora
quel mondo immaginario che conforta.
A boschi e monti e fiumi, tu solerte,
e perfino alla ferrosa massa inerte
dai voce e anima, che non sia morta.
(trad. Laura Cangemi)

Un francobollo delle poste tedesche che nel 2008 hanno scelto Nils Holgersson come testimonial dell’emissione dedicata a Selma Lagerlöf. A destra una delle illustrazioni di Bertil Lybeck (1887-1945) che corredano la nuova traduzione del libro pubblicato da Iperborea (Il meraviglioso viaggio di Nils Holgersson, trad. di Laura Cangemi, Milano 2017)

Il volo di Nils sul dorso dell’oca, con le sue tappe, tiene il racconto sospeso tra il telescopio e il microscopio, tra il campo lungo e il primo piano. Ci sono città di terra e città sprofondate nel mare, minatori e fornai, studenti, fabbri e predicatori, giganti e reliquie. E soprattutto una natura descritta senza parsimonia, in cui ogni essere vivente è partecipe di una saga avvincente e di un racconto morale. Il cast è inesauribile. Nel capitolo dedicato alla costa meridionale dell’Öland sono in scena pecore, purosangue, cervi, pernici, lepri, tordi, anatre, oche cinerine, oche selvatiche, beccacce, cigni, tuffoli, trampolieri, anatre tadorne, gabbiani, rondini, volpi, aquile, e ambizione, solidarietà, amicizia, sacrificio, vanità, impertinenza.

Due illustrazioni di Boris Diodorov (n.1934) per un’edizione russa del viaggio di Nils

Lagerlöf trasforma la didassi in un set cinematografico, dove ha il privilegio di poter piazzare la macchina da presa ovunque voglia, libera di esercitare un’inedita onnipotenza dello sguardo. E lo fa splendidamente, come in questo frammento dove il punto di vista è quello di Nils in volo sulle ali di un’aquila, ma l’organizzazione dei contenuti è pertinente al miglior libro di geografia:

Da lassù dov’era al ragazzo era sembrato di vedere tutti insieme tre mondi diversi. Uno era nel fondovalle, dove scorreva il fiume. Lì viaggiavano i tronchi, passavano i vaporetti di pontile in pontile, lì strepitavano le segherie, si caricavano le grandi navi da trasporto, si catturava il salmone, si remava, si veleggiava, lì volavano a frotte le rondini che avevano il nido sugli argini.
Ma se si saliva di un piano, per così dire, nella valle, sul terreno regolare che si estendeva fino alle pendici, c’era un secondo mondo. Lì si trovavano fattorie, paesi e chiese, lì i contadini seminavano i loro appezzamenti, lì pascolava il bestiame, verdeggiavano i prati, le donne si affaccendavano nei loro orticelli, lì si snodavano strade, sferragliavano treni.
E poi, sopra a tutto, sui crinali ammantati di boschi, vedeva il terzo mondo. Lì le femmine di gallo cedrone covavano le uova, gli alci si nascondevano nel folto dei rovi, lì si appostavano le linci, sgranocchiavano gli scoiattoli, profumavano gli aghi, lì fiorivano i cespugli di mirtillo, lì chiacchieravano i merli.

Due illustrazioni di Anton Pieck (1895-1987) per l’infaticabile Holgersson

A dimostrazione però di un ottimo controllo delle diverse tecniche narrative in un altro capitolo l’autrice assume il tono di voce del novelliere seduto accanto al fuoco, pronto ad attingere al tesoro leggendario della sua terra: “Molto tempo fa c’era nel Närk qualcosa che non aveva l’uguale da nessun’altra parte, ed era una troll che si chiamava Kajsa di Ysätter”, un essere magico buffo e divertente specializzato in bufere e tempeste.
Forse sta in questa tessitura rocambolesca di fili così diversi e cangianti la ragione per cui il Viaggio meraviglioso di Nils Holgersson è stato allo stesso tempo il libro che ha convertito Konrad Lorenz all’etologia (e soprattutto alle oche), e amato da Marguerite Yourcenar, ammiratrice sincera della Lagerlöf.
Nils, alla fine del viaggio, ritroverà le sue fattezze d’uomo e la sua famiglia: concluso il suo romanzo di formazione, potrà chiudere il libro di lettura dopo aver imparato a praticare la conoscenza del mondo, e prendere contemporaneamente commiato dall’infanzia.

Selma Lagerlöf ( a sin.) con l’amica e compagna di tutta la vita Sophie Elkan (1853-1921)

A quarant’anni esatti dalla pubblicazione del Viaggio meraviglioso di Nils Holgersson, un altro maestro destinato a diventare molto famoso, almeno in Italia, s’ingegnò di mettere a frutto le sue conoscenze scientifiche – era laureato in biologia – e a mettere alla prova il suo talento di scrittore per suscitare l’interesse di allievi molto speciali. Alberto Manzi (1924-1997), così si chiamava quel maestro, nel 1946 venne “sbattuto” a insegnare nel carcere minorile “Aristide Gabelli” di Roma. È la sua prima esperienza di educatore. Doveva insegnare a novanta ragazzi fra i 9 e i 17 anni (al 18° passavano al Regina Coeli) in un’enorme ‘aula’ senza banchi, sedie, libri, senza niente. Chi l’aveva preceduto, più d’uno, aveva abbandonato l’impresa. Troppo diverse le storie personali di ognuno di quegli studenti, troppo vario il loro grado di alfabetizzazione. Manzi invece riuscì a catturare l’attenzione di tutti inventando e raccontando una storia: la storia di un gruppo di castori in lotta per la propria libertà. La scrittura divenuta collettiva si trasformò anche in azione scenica. Grogh, storia di un castoro diventerà il primo romanzo di Alberto Manzi, pubblicato nel 1948 e vincitore del Premio Collodi. Numi tutelari dell’impresa sembrano essere Jack London e Rudyard Kipling di cui Manzi tradurrà e adatterà Il libro della Giungla (ben conosciuto e apprezzato anche da Selma Lagerlöf) e Storie proprio così.

Per ritirare quel premio il maestro andò Milano e in quell’occasione fece la conoscenza di Domenico Volpi, responsabile del Vittorioso, giornale per ragazzi. È l’inizio di una collaborazione che Volpi giustificò così: “Manzi era laureato in Biologia e io non avevo redattori competenti in quel campo”. In verità il maestro fece prima l’inviato in Sud America da cui mandava cronache piene di personaggi, dialoghi, piccole avventure, con il gusto per l’incanto, la leggenda. Poi iniziò a scrivere brevissime monografie naturalistiche che nel 1956 formarono sulle pagine del giornalino un catalogo scientifico scorrevole e preciso: I gallinacei, I nidi degli insetti, Quanto e come dormono gli animali, Il mar dei Sargassi, La lucertola, Il coniglio, Incontri con la natura ma c’erano sono anche pezzi sui centenari, sulla lingua che parliamo, sull’accademia navale e sulla ‘strana’ professione di geologo. Nel 1959 Manzi, in veste di pedagogo della scienza, inaugurava le Piccole Enciclopedie del Vittorioso, che in alcune pagine sembrano evocare con maggiore umorismo i Parrish Books di Marie Neurath, pubblicati giusto negli anni Cinquanta (vedi Disegnangolo, Otto e Marie Neurath, Le parole dividono le immagini uniscono).

Una puntata della Piccola Enciclopedia del Vittorioso (in alto) e una pagina tratta da Marie Neurath, Esplorando il fondo marino (Exploring Under The Sea, 1958), Milano 1968.

Il tratto saliente di Manzi è una evidente insofferenza per l’aridità del dato conoscitivo, quando non sia posto in relazione con l’esperienza umana. La natura merita di essere esplorata e descritta in quanto animata dal vivente, la tecnica merita di essere illustrata perché si trasforma nello strumento di un racconto, di un apologo, di una storia. L’umorismo aggiunge leggerezza ed empatia con il lettore. L’ingegnosità con cui Manzi piega l’informazione ai dettami della narrazione è ammirevole. Il suo amore per Jules Verne – nel 1960 tradurrà Il giro del mondo in ottanta giorni, riducendolo per i lettori più giovani– è una traccia stilistica e una cifra interpretativa. L’impegno di Verne di dissolvere in romanzo la scienza, – non sempre riuscendo pienamente, basti ricordare le interminabili, e noiose, digressioni tassonomiche dedicate alla flora e alla fauna sottomarina in Ventimila leghe sotto i mari – costituiscono per Manzi un esempio fervido da godere ma da considerare con prudenza.

L’opera di divulgazione ed educazione scientifica di Alberto Manzi non conosce soste e interruzioni.
Nel 1960 pubblica Animali grandi, piccoli, così così, regalando già nel titolo un’idea sovversiva e birichina di classificazione. A partire dallo stesso anno per la collana “Incontri con la natura” scrive di uccelli, tartarughe, serpenti, paguri. Qui sotto un esempio della sua prosa ‘domestica’, accogliente ma senza indulgenza.



Nel 1968 il maestro Manzi collabora all’enciclopedia monografica della scienza Vedere e capire di Bompiani. L’incipit è programmatico e sembra voler rispecchiare, con ingenuità, l’aria del tempo:

Oltre il recinto della tua fattoria, 
oltre i campi della tua valle, 
e il fiume, e il monte, c’è sempre vita. 
Esseri che amano, lottano, muoiono.
Un mondo come il tuo, ricco però del fascino del nuovo.
Prendi il tuo sacco, cammina!
I tuoi occhi conosceranno nuove meraviglie.

L’incipit programmatico del volume Vedere e capire: “Il libro vive tutto nell’enorme curiosità che sa suscitare, nel fascino di questi problemi e nella loro particolare esposizione. Si può leggere infatti in modi diversi: unicamente nel suo testo narrativo, oppure affrontando anche i dati più strettamente scientifici delle colonnine in corsivo, oppure affidandosi alle illustrazioni, che costituiscono da sole una sequenza quanto mai suggestiva”

Nei primi anni Settanta per la redazione della rivista La via migliore. Organo delle Casse di Risparmio italiane per la propaganda del risparmio scolastico Manzi scrive su tanti altri temi: il volo degli uccelli, gli abitatori dello stagno, le terre inesplorate, le stelle, la fotografia, l’atomo, la preistoria, la conquista dei cieli, l’alimentazione, la cibernetica, la medicina, il centro della terra, la comunicazione, i popoli primitivi, i terremoti, l’alimentazione, l’allevamento. Il suo stile ha il ritmo di un dialogo, con digressioni, accelerazioni o rapide sintesi che riproducono il linguaggio parlato. Scrive come se rispondesse alle domande di uno scolaro curioso, uno di quelli che fatta la domanda già è pronto a inseguire il volo di un calabrone, e che solo una buona storia riporta all’attenzione.


Alberto Manzi è un raro esempio di come fatto artistico e intenzione pedagogica possano abilmente fondersi. Se nei romanzi, però, non esiste vera e propria mira d’insegnare, nelle pubblicazioni a carattere scientifico questo è naturalmente il fine esplicito. La tecnica di Manzi è sempre la stessa: prima egli si documenta a fondo sull’argomento che sta per trattare, quindi inizia l’esposizione riconducendo il discorso a fatti leggendari o avventurosi, con l’aria di star raccontando tranquillamente vecchie storie sconosciute. Infine passa alla realtà, ma sempre col tono di chi continuamente scopre per caso mondi nuovi e viene assalito allora dalla curiosità di saperne di più. (Daniele Giancane Alberto Manzi o il fascino dell’infanzia, Milano, 1975?)

Tuttavia questa grande abilità nel raccontare la scienza non indeboliva il rigore con cui Manzi in molte pagine teoriche ha sistematizzato le finalità e gli obiettivi dell’educazione scientifica: comprendere meglio il mondo sviluppando nei ragazzi la curiosità cognitiva, l’intraprendenza creativa, l’attenzione ai rapporti tra le cose, la ricerca di cause unificatrici tra i fenomeni, la capacità di analisi, di ragionamento logico, d’indagine, l’articolazione tra il fare e il pensare.
Raccontare il mondo significa comprenderlo.
E un buon racconto del mondo ha bisogno di buone domande e le domande migliori si nutrono d’immaginazione e non c’è immaginazione più fervida di quella di un bambino. A volte l’inesperienza aiuta a pensare fuori dagli schemi e la consuetudine al gioco permette di trovare soluzioni inaspettate. Così adulti e bambini possono avvicinarsi ai temi scientifici non solo confinati nei rispettivi ruoli di insegnante e allievo, ma attraverso un’inedita forma di collaborazione dove per entrambi ci sia da imparare, con passione e rispetto. Qui sotto due esempi divertenti, acuti e creativamente brillanti, pertinenti a questo punto di vista.


*immagine di copertina:
Sam Brewster – Langora Kaffenbrenneri, Hjelseng Farm, Stjørdal, Norvegia 2017

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