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È del Museo il fin la meraviglia Chi non sa far giocare, vada a la striglia

Il 6 marzo 2015 si è tenuto a Bologna il convegno Quando i musei giocano, organizzato da Zaffiria in collaborazione con Regione Emilia-Romagna e Nemo, Network of European Museum Organizations, (visita il sito). In quella occasione è stato presentato un piccolo volume nato nell’ambito del progetto “Valore in gioco” finanziato da Fondazione Cariplo, 15 Phantasiestücke sopra giocattoli e musei (scarica il PDF), di cui presentiamo, suddivisa in due parti, una rielaborazione sintetica delle conclusioni.

Mosaic Cube Amusement
Mosaic Cube Amusement, XIX sec., trovato su http://mondo-blogo.blogspot.it/2012/05/avant-garde-toys-early-years.html?m=1

In breve riassunto ecco i motivi che ci hanno spinto a rileggere, intrecciandoli, alcuni capitoli della storia del museo, del giocattolo, del design, dell’avanguardia artistica del Novecento e della pedagogia di fine Ottocento. Andando a ritroso: la nuova pedagogia che esordisce con Comenius alla metà del Seicento e che fiorisce straordinariamente a partire dalla prima metà dell’Ottocento con Johann Heinrich Pestalozzi e Friedrich Fröbel, pone al centro delle sue strategie d’istruzione il gioco come via creativa, reattiva e relazionale d’imparare il mondo e sviluppare il potenziale individuale. E insieme al gioco una pedagogia sempre dolce quanto esigente, dà spazio ai giocattoli e dà vita a un originale intreccio di forme, colori, meccaniche, che offrono al sapere un supporto ludico. Perché il gioco è per il bambino, insieme all’affetto, il veicolo d’apprendimento più potente.

Le avanguardie artistiche del Novecento hanno spesso trascorso la loro infanzia in scuole i cui programmi erano ispirati a queste pedagogie innovative e in esse hanno trovato gli strumenti per giocare un nuovo gioco dell’arte. È difficile non pensare agli Spielgaben di Fröbel guardando un quadro di Piet Mondrian o a Paul Klee aprendo la scatola del Mosaic Cube Amusement della collezione Bordes, con la giustapposizione precisa ed effervescente di triangoli e cubi nei colori primari. L’avanguardia – che allineava su uno stesso orizzonte l’infanzia con la sua visione della realtà assoluta e sorgiva e i popoli primitivi, interpretati come infanzia del mondo per la loro arte essenziale e cultuale – inventava giocattoli come l’ arte non aveva mai fatto.

Costruire giocattoli era l’effetto della nostalgia di uno sguardo intatto, non ancora opacizzato dalla tradizione, ed era allo stesso tempo un potlach, una restituzione di ciò che gli artisti avevano ricevuto nella loro fanciullezza. Quei giocattoli erano il frutto di una economia del dono e allo stesso tempo i frutti ultimi di una rivoluzione antropologica che a partire dall’Illuminismo aveva posto il bambino in una condizione di autonomia concettuale rispetto all’adulto.

Quella stessa pedagogia che aveva agitato lo stagno delle belle arti suscitò l’attenzione del design modernista, impegnato a spazzar via le decorazioni dai muri di Vienna: il nuovo bambino aveva bisogno di mobili semplici, di un ambiente che non lo soffocasse, di freschezza, aria, luce, allegria. Perfino i velocissimi futuristi erano perfettamente d’accordo. Servivano nuove camerette, nuove seggiole, nuovi tavoli e nuovi giocattoli. O vecchi giocattoli resuscitati in materiali e forme inediti. Quando l’arte si mette a giocare cosa ne esce? Opere d’arte o giocattoli?

Ci sono, pescando a caso, i pezzi in legno colorato per costruzioni di Alma Siedhoff-Buscher, le marionette di Sophie Taeuber-Arp, i vetri di Bruno Taut, il cavalluccio che Picasso ricavò da un carrello per la televisione, le sedie giocose di Marcel Breuer, il circo di Calder pieno di personaggi smilzi come il fil di ferro con cui erano costruiti, ma possiamo aggiungere i bellissimi giocattoli di Fortunato Depero: gli animali in legno bicolore, blu e azzurri, a metà nella luce, a metà nell’ombra, oppure la sua giostra lampadario, o ancora gli strumenti musicali di Giacomo Balla, le marionette di Luigi Veronesi, le mandrie in legno di Duilio Cambellotti.

In ogni caso l’arte gioca più di quanto non faccia giocare e spesso regala senza volerlo buone idee a un’industria con il fiato corto.

Ma questi giocattoli inventati dagli artisti ci conducono sulla porta del museo. Il museo è nato come collezione privata, poi è diventato luogo di godimento pubblico, istituzione, solenne apparato quasi religioso per la celebrazione dell’arte legittimata dalla cultura dominante e dal suo canone; ha avuto i suoi momenti di follia, la Wunderkammer, camera delle improbabili meraviglie; ha rischiato di soffocare nella bulimia di Gallerie che contenevano tutto, da tutto il mondo; è stato la cassaforte per i sontuosi bottini della guerra o dell’archeologia coloniale, ed è stato capace di ripensarsi e di rifondarsi. Il museo ha riconsiderato strategie, funzionamento, ruolo nella comunità, ha ridisegnato l’architettura dei suoi edifici e la struttura degli spazi; è diventato molto più di una pinacoteca o di una gipsoteca, è uscito all’aria aperta, ha accolto le arti applicate, i saperi minori, le microstorie, l’etnografia dei territori e l’antropologia dei borghi. Il museo non si limita più a conservare ed esporre, ma studia, comunica, produce cultura, relazioni, informazione; è un laboratorio permanente che documenta, promuove, educa. Educa: quindi al centro del suo interesse c’è il bambino, c’è il futuro. Se c’è il bambino ci deve essere il gioco. Se c’è il gioco, perché non il giocattolo?

C’è una nuova pedagogia museale che conosce bene l’importanza del gioco e della partecipazione attiva dei bambini: i musei s’interrogano su quale libertà, spazio, contenuti dare alla pratica dell’esplorazione. Come attivare i sensi nel silenzio delle sale museali? Come incuriosire i bambini (anzi, come non reprimere la loro naturale curiosità)?

Ci sono Children’s gallery, Angoli gioco, Siti web e App dedicate, summer-school, laboratori ecc. che mettono all’opera l’interazione e la coniugazione di virtuale e reale, ovvero l’impiego a un tempo di strumenti multimediali e materiali concreti.
Un sistema integrato di materiali cartacei, segnaletica, spazi reali e web-zone, dispositivi mobili e occasioni di pratiche concrete è proposto per raggiungere l’obiettivo di avvicinare e appassionare i bambini al museo e alle sue ricchezze.

Ma questa nuova strategia museale non ha ancora creato, per lo più, i suoi giocattoli.

La pedagogia rivoluzionaria maturata nell’Ottocento, dopo che l’Illuminismo aveva trasformato il bambino da miniatura di un adulto a soggetto aurorale, aveva cresciuto una generazione di artisti disposti al cambiamento anche grazie a strumenti di gioco innovativi e pertinenti.

I musei devono trovare il loro Fröbel, cioè chi sia capace di trasformare in un gioco la nuova idea di museo. O il loro Picasso, che trasformi una App su Edgar Degas in un irresistibile gioco di costruzioni o in un atelièr cosmogonico.

Il giocattolo resta la cosa più vicina alla pratica infantile di saggiare il mondo, di ricostruirlo con la propria fantasia per appropriarsene felicemente. Il giocattolo è il punto di minore resistenza all’esplorazione continua dell’alterità che compie il bambino, esplorazione che permette di dare una forma a sé e a ciò che è diverso da sé.

L’implicita natura del giocattolo, che si vorrebbe svincolata da ogni fine, potrebbe essere condotta nel rapporto con il museo a un utile meraviglioso. È vero che il gioco è un tutto che non abbisogna d’altro che di se stesso: che si detta le sue regole e che non ha scopo; che è un fare ‘come se’ e non ‘come è’; ma noi non vogliamo togliere al gioco la sua libertà, la sua leggerezza, la sua imprendibile varietà: qui noi distinguiamo gioco e giocattolo.
Il gioco obbedisce al suo intimo ordine che di nessun sistema di regole è debitore, il giocattolo è una cosa che del gioco si fa strumento.

Noi pensiamo al giocattolo come al meccanismo (una cosa in sé) la cui forma non altera il funzionamento della macchina; un giocattolo che sia allo stesso tempo un narratore e uno strumento senza regole.
Il giocattolo a cui pensiamo è allo stesso tempo uno strumento per giocare, un oggetto espressivo e creativo, un mezzo per comunicare e per conoscere: un espediente narrativo per raccontare il carattere e le opere di un museo, per attrarre i bambini in uno spazio, quello dell’arte, che offre molto di più di quanto non sembri promettere loro.

Il giocattolo che nasce nel museo, in quel particolare museo e non in un altro, segue il bambino nella sua casa, nel suo circolo d’esperienze, e di quel museo tiene viva la memoria attraverso una persistenza giocosa, gratificante.

Il giocattolo che nasce nel museo ritrova l’alfabeto della bellezza e dell’originalità con cui gli artisti dell’avanguardia l’hanno saputo riscrivere nel novecento.

Juliet Kinchin alla fine del suo saggio Hide and seek: remapping modern design and childhood, che appare nel catalogo della mostra Century of the Child. Growing by Design 1900-2000, tenutasi al MoMa di New York nel 2012, afferma: “Il gioco sarà per il 21° secolo quello che il lavoro è stato per l’età dell’industria, cioè la via maestra per la conoscenza, il saper fare e la creazione di valore”.
E in questo caso, aggiungiamo noi, il Museo davvero potrebbe fare finta di nulla?

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