1.
Kenneth Branagh crede alle favole? Branagh è il regista di Cinderella la più recente versione della storia dell’orfanella bistrattata cui la magia restituisce il rango – sarà la prescelta tra tutte le fanciulle – e che soprattutto la magia risarcisce con l’amore esclusivo di un principe.
L’attore inglese è stato spesso dietro la macchina da presa, soprattutto per trasposizioni scespiriane – Enrico V, Molto rumore per nulla, Hamlet, Pene d’amor perdute, Come vi piace, Macbeth – in cui, senza giudicare i singoli risultati, ha sempre cercato di non apparire ingenuo. L’ingenuità, per un interprete e autore colto, sarebbe un atto di presunzione e un errore di prospettiva. Quando poi ci si appresta a raccontare una favola, ci si fa forti di un contratto implicito con chi ascolta o con chi guarda per il quale sono questi ultimi a farsi carico di una misurata ingenuità. I bambini sono i più bravi a fingersi ingenui, mentre capiscono subito che la favole conoscono tutti i loro segreti più difficili. Branagh non crede alle favole, sa che il suo pubblico sarà in gran parte un pubblico adulto, ma il tono della sua voce e la sua personale idea di come debba funzionare una lanterna magica sembrano fatti apposta perché i bambini si sentano presi sul serio e sentano prese sul serio le loro faccende (la rivalità con i fratelli e le sorelle, il posto che occupano nel cuore di mamma o in quello del padre ecc ecc).
Il film di Branagh ha nella prima parte il respiro tranquillo di un larghetto musicale, è la celebrazione di una felicità feriale, agreste, moderata negli accadimenti ma solida come una roccia. La morte della madre non cancella del tutto la felicità della figlia Ella/Cenerentola (Lily James) perché l’esperienza dell’amore materno è stata perfetta, uno specchio senza incrinature, e si è trasformata in un perfetto amore del mondo. Così siamo avvertiti di essere in una favola – esiste il perfetto amore materno nella realtà? – attraverso un racconto che non ha niente di favoloso. Ma l’esperienza dell’amore non è il solo dono della madre alla figlia.
2.
Che cosa hanno in comune Ella e la protagonista del film di Jean-Marc Vallèe Wild (2014)? Entrambe sono giunte a un momento assai critico della loro vita, entrambe, sebbene in modi e contesti molto diversi, sono finite davvero in basso. La Ella di Branagh, morta la madre, è finita nella cenere, passata dalle sete agli stracci, in Wild Cheryl Strayed (Reese Witherspoon), morta la madre, è finita nell’eroina e nel letto di chiunque faccia domanda. Ma la vera cosa che le unisce è la saggezza materna, il lascito in forma di parole che hanno ricevuto in eredità, l’invito estremo e risolutivo: “Have courage and be kind” nel caso di Ella, “Do the kindness thing” per quel che riguarda Cheryl. Essere gentile, avere coraggio. La parola coraggio non c’è nell’apostrofe di ‘Bobbi’ Grey, la madre di Cheryl, ma è implicita nella richiesta di uccidere con gentilezza quando lei non ci sarà più, è molto malata, il suo cavallo prediletto pure in fin di vita.
Il cavallo ci permette di tendere un filo molto resistente tra le madri coraggiose e amabili di Ella e Cheryl e le donne pioniere dei western di John Ford: è lo spirito di queste, sempre pronte ad accogliere, aspettare, difendere, pregare, partorire e seppellire, lottare, a soffiare nelle parole di quelle. Coraggio e gentilezza sono le due ali potenti di una moralità matrilineare che non conosce rassegnazione e rancore.
Nella favola così come l’ha scritta Charles Perrault non ci sono ultime parole materne, ma si dice che Cenerentola era di una dolcezza e bontà senza pari (d’une douceur et d’une bonté sans exemple) e che aveva preso queste qualità da sua madre, la migliore persona del mondo.
Di Cendrillon ou la petite pantoufle de verre (1697) la morale è questa: “La beltà per le donne è un tesoro ben raro, e d’ammirarlo mai non ci si sazia, ma ciò che si suol dir la buona grazia è senza prezzo e torna anche più caro. Questo fu il dono ch’ebbe Cenerentola dalla madrina sua; la qual fece, istruendola, della povera bimba una regina.” La bonne gràce è qui un regalo della madrina in funzione di madre sostitutiva.
Nella versione dei Grimm, Ashenputtel, è la mamma che parla: “Liebes Kind, bleib fromm und gut” ovvero sii sempre mansueta, o docile o pia, e buona. Qui il coraggio non c’è.
Nel film di Branagh ‘coraggio e gentilezza’ sono il contributo americano dello sceneggiatore newyorchese Chris Weitz.
E’ invece dello scenografo italiano Dante Ferretti la bella intuizione di sottolineare quanto la casa, con i suoi arredi, gli oggetti, la distribuzione degli spazi, sia per Ella una forma di permanenza della madre accanto a sé e di quanto perciò sia vitale per la matrigna (Cate Blanchett) trasformarla il più possibile. Ha scritto Bruno Bettelheim nel suo libro sull’uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe Il mondo incantato (Milano, 1977): “Il focolare, il centro della casa, è un simbolo della madre. Vivere così vicino ad esso tanto da dimorare in mezzo alla cenere può quindi simboleggiare un tentativo di rimanere attaccata, o di fare ritorno, alla madre e a quanto essa rappresenta”.
Ella, in questo sostenuta dalla sostanziale indifferenza del padre, conserva nella maggiore integrità possibile la casa così come era stata abitata da sua madre: gli interni pur evocando un ottocento inglese inscatolato in legni pregiati, tappeti, tendaggi e cineserie coloniali, hanno la leggerezza di Watteau. Ella sa, come ogni bambino, che mantenere in un equilibrio conosciuto e immutabile le cose significa tenere al sicuro gli affetti.
La bellissima matrigna, incarnata dalla plastica perfezione della Blanchett con il suo insuperabile chic anni ’40, è assai più sofisticata di Ella ma diventa volgare quando si tratta di buttare all’aria la casa della figliastra optando per un bazaar di broccatelli, chinz, fiorami e opulenze in stile restaurazione, dove ciò che sono restaurati sono i diritti della forza contro le prudenze della gentilezza.
La matrigna è lo spirito della città e dei salotti, che detesta la campagna come il fango su una vestaglia di Mariano Fortuny. All’opposto Cenerentola parla il linguaggio della natura, è la natura: si veste con la primaverile semplicità di mamma e con il gusto infantile di una lettrice di fiabe, sempre in azzurro come una magica fanciulla fiore. L’unica nota civettuola è una sciarpa di garza merlettata annodata in testa come un turbantino da lavori domestici che però, con malizia involontaria, ricorda anche la Grande Odalisque di Dominique Ingres, la Sibilla Persica del Guercino e il Marat assassinato di Jacques-Louis David: erotismo, verginità e rivoluzione, sintetizzati da un pezzo di stoffa sistemato con negligenza.
Ella (che assomiglia molto alla Jessica Lange di quarant’anni fa) ha la stessa bellezza pacata della sua casa, così pacata che non l’invidia sembra il movente della ostilità della matrigna e delle sue figlie, ma il disprezzo per un cuore semplice e sicuro di sé.
3.
In uno dei primi film tratti dalla favola di Cenerentola, il secondo dopo quello poco riuscito di George Méliès del 1899, girato da George Nichols nel 1911 con Florence La Badie – interni gotici, costumi elisabettiani con smaltimento di voile da magazzino per l’abito fatato di Cenerentola, sorellacce non brutte come da copione ma narcisette e assai manesche – il padre non muore ma se ne sta in disparte umiliato dalla prepotente matrigna nei suoi fievoli tentativi di proteggere Cenerentola.
Nella versione di Charles Perrault (1697) il padre non si affaccia quasi oltre le prime cinque righe: è un gentiluomo, è vedovo e si risposa, ha una figlia dal precedente matrimonio. Poi sparisce dal racconto, non serve. È pur vero che la fiaba inizia con : “C’era una volta un gentiluomo…”. Solo un altro accenno poche righe più avanti per dire che Cenerentola non si lamentava col padre del tristo trattamento ricevuto dalla matrigna e dalle sorellastre perché lui l’avrebbe rimproverata, succube com’era della moglie.
I fratelli Grimm (1812) gli concedono più spazio anche se, con perspicacia, lasciano il la dell’incipit alla madre: “La moglie di un ricco si ammalò…”. All’inizio di una rigenerazione c’è la perdita. Un taglio netto. La morte è come il ramo di nocciolo staccato dalla pianta che Cenerentola riceve in dono dal padre: lei lo mette nella terra, lo innaffia con le sue lacrime e ne nasce rigogliosa una pianta nuova. Nel racconto dei Grimm è il padre che aiuta il principe a cercare la figlia, dopo ognuna delle tre sere passate da lei a corte, e che si mette in sospetto. Ma quando il principe, fatta provare la scarpetta d’oro alle due figliastre, gli chiede se non abbia un’altra figlia, l’uomo risponde: “No, c’è solo una piccola Cenerentola bruttarella della moglie che mi è morta, ma è impossibile sia la sposa”. È anche in questo caso un padre che oltre ad aver sposato una grama matrigna per la figliola ne ha sposato il giudizio e il disprezzo. Più o meno allo stesso modo si comporta il padre nella Gatta cenerentola che si trova nel Pentamerone ovvero la fiaba delle fiabe (o Lo cunto de li cunti) (1634) di Giambattista Basile: “Io ho una figlia, ma sta sempre a guardare il focolare, perché è una creatura disgraziata e dappoco, non meritevole di sedere dove mangiate voi”. La disgraziata peraltro aveva ucciso lei stessa la sua prima terribile matrigna per dare il padre in sposo alla sua istitutrice (“una maestra da cucire di prima riga” traduce Benedetto Croce dal napoletano) che da gentile si fece presto ostile e “cominciò a mettere in scranna sei figlie sue”.
Questa fanciulla resterà fino alla fine autrice della propria fortuna. Né padre né madre a farle scudo e corteggio.
Nel film di Branagh il vedovo, un commerciante sempre in viaggio per terre lontane quasi si fosse dalle parti delle Mille e una notte e non dei fratelli Grimm, è buono, ma pallido padre: Ella sembra la moglie di un marinaio, sempre in attesa. Ci si chiede cosa se ne facesse sua madre di un marito così perfetto e così assente. Come Maleficent, così Cinderella è una storia declinata al femminile; lo sguardo dei maschietti si arrampica come su uno specchio in cerca di una decente possibilità di identificazione. Il padre di Cenerentola muore all’altro capo del mondo dopo aver sposato una donna assai bella ed elegante ma essendo incapace di goderne, perché sempre richiamato all’ordine monastico del primo amore dall’implacabile memoria della figlia. Il padre del principe è una figura del tutto positiva, finge di imporre al figlio il principio di responsabilità, salvo innamorarsi ancor prima di lui della futura nuora. Ma muore subito, per lasciar campo sgombro. Resta il principe.
Ma come ogni principe è un consorte. Serve allo scopo, ma Cenerentola più che innamorarsi di lui s’innamora di uno spazio e un tempo di festa, bellezza, magia (con regia della fata madrina: qui una bizzarra, sghemba e inquietante Helena Bonham Carter) da non condividere con nessuno, né madri, né matrigne, né sorelle o fratelli. Insomma, Virginia Woolf avrebbe detto che Cenerentola si è conquistata il diritto a una favola tutta per sé.
Cinderella 2015 / Regia: Kenneth Branagh / Sceneggiatura: Chris Weitz / Scenografia: Dante Ferretti / Costumi: Sandy Powell / La matrigna: Cate Blanchett / Cenerentola (Ella): Lily James / Il Principe: Richard Madden / Fata Madrina: Helena Bonham Carter / Il re: Derek Jacoby